Per chi, come me, nasce negli anni Ottanta, quello del 1994 fu un mondiale atipico. Dall’altra parte del mondo. Faceva strano vedere le partite di sera giocate con il sole negli USA. A dire il vero eravamo tutti ancora scottati dalla sciagurata semifinale del San Paolo di quattro anni prima. Ma più precisamente eravamo tutti ancora avvolti nelle notti magiche italiane quindi questo sole statunitense da contorno alle partite, giocate in stadi di Football, lo avevamo con fatica accettato. Ma ci eravamo abituati subito. Del resto il calcio si gioca in un rettangolo verde. E quello americano era uguale agli altri.
Le novità erano tante però. Ad iniziare dalla regola dei tre punti a vittoria e dai nomi dietro le magliette. Il calcio stava cambiando, non lo sapevamo.
L’esordio di quel mondiale americano fu disgraziato. La prima partita del girone, giocata nell’immenso Giants Stadium di New York ci aveva visto soccombere sugli spalti e in campo, al modesto Eire che, grazie al pallonetto di Houghton beffava un Pagliuca disorientato. Male, molto male se teniamo conto che quattro anni prima eravamo arrivati in semifinale senza mai perdere e subendo appena un goal.
Contro la Norvegia il 23 giugno 1994 era già una gara da dentro o fuori.
Faceva caldo quel giorno e il MetLife Stadium, nel New Jersey, ci sembrava un’astronave lontana anni luce.
La scuola era finita da qualche settimana ed io ero stato promosso dalla prima alla seconda media. Il mio mondo era perimetrato nei dintorni di casa, eppure lo vedevo vastissimo.
La Lucania del 1994 era una tavola a colori dove i pastelli risaltavano in ogni angolo sfumature impresse ancora oggi nella mia mente.
C’erano due mondiali in atto. Uno in America, l’altro sotto casa. Ed eravamo noi del quartiere i protagonisti di quel sub mondiale amatoriale e ruvido dove le regole non esistevano. Esattamente come le reti di una porta saracinesca. C’era ancora speranza.
Quel giorno ricordo che lessi il giornale che mio padre quotidianamente comprava e che io sbirciavo solo nelle pagine sportive. C’era una pagina pubblicitaria interamente scritta in stampatello. Vi era riportato, ricordo solo la prima frase, “stasera faremo vedere ai norvegesi…” Quanto basta per gasarmi.
La sera il quartiere era un deserto. Tutti erano incollati al televisore. Quello cubico non gli ultrapiatti moderni. Ma anche questo stava cambiando e non lo sapevamo.
Un insolito silenzio riecheggiava dalla piazzetta dove ci spaccavamo le ossa giocando milioni di partite con palloni di fortuna. Erano gli anni Novanta cazzo.
Pizzul aveva già dato le formazioni quando la tensione prese il sopravvento sulla ragione di un appena adolescente. Ma credo di tutti.
Avrò fissato quelle maglie azzurre larghe per una manciata di minuti che ricordo infiniti, così, perso nei cazzi miei.
Poi l’Italia iniziò a macinare gioco senza concludere. Ma qualcosa nell’aria diceva che ce la potevamo fare. Chi era d’altronde la Norvegia?
La malasuerte tuttavia incombeva. Un fuorigioco malriuscito smarcava un vikingo che si ritrovava davanti al Gianluca ruminante. Sarebbe stato gol certo se Pagliuca non avesse parato fuori area. Espulsione del portiere. Eravamo in 10 contro 11 e doveavmo vincere per forza.
Oggi avrei considerato quella situazione di deficit come una sconfitta sicura. A 12 anni invece ci credevo cazzo. “Dobbiamo vincere lo stesso”, pensai.
Sacchi era un allenatore atipico. Odiato o amato. Non entrerò in discorsi tecnici ma quando tolse Baggio per Marchegiani il Romanticismo raggiunse livelli sacrificali.
Cazzo Baggio.
Non saprò mai se la scelta di Sacchi fu difensivista per garantirsi un’ultima chance contro il Messico o scelleratamente e fottutamente straordinaria frutto di chissà quale strategia arcana e quando Signori dalla sinistra azzeccò il cross perfetto e l’altro Baggio, Dino, incornò tra i vikinghi, mio padre menò un urlo che si sentí fino alla East coast. Pizzul non trattenne l’emozione rendendo imperituro quel momento.
Il cielo lucano del 1994 ritornò sereno nella notte stellata di giugno e i fantasmi di un’assurda eliminazione scomparvero momentaneamente.
Poi l’arbitro suonò tre fischi che seppero di lirica e l’impresa fu compiuta.
Non so esattamente cosa successe giù nel quartiere dopo la partita ma ricordo perfettamente che si ripopolò in pochissimo tempo carico di euforia, come quattro anni prima.
Quelle maglie larghe, antiestetiche, ci avevano appena fatto sognare e forse non lo sapevamo.


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