Quarantaquattro anni da quel 23 novembre 1980 che indissolubilmente ha segnato un prima e un dopo nella Lucania, nella Campania ma credo nell’Italia intera.
Il prima è contrassegnato dall’immutabilitá del dopoguerra. Una Lucania ancora legata saldamente alla terra. Un Cristo si è fermato ad Eboli visibile in ogni angolo della regione. Una noia moraviana lenta e confortevole che avvolge nel suo abbraccio materno questo sud anonimo chiamato Basilicata.
Poi la scossa.
90 secondi di eternità. 90 secondi per riflettere all’Italia la propria fragilità.
Le case crollarono come costruzioni Lego. Si sbriciolarono come Oro Saiwa in una mano adolescente.
E poi le facce. Quelle facce scure, tristi e segnate dal lavoro. Facce contadine, facce dure, facce estremamente familiari che se viste in TV senza sapere di cosa si stesse parlando, avrei indovinato la loro provenienza lucana e che, guardandole adesso, mi riportano ad un’infanzia perduta molto di più dei vecchi filmini di famiglia. Forse loro non lo sanno, ma sono proprio quelle facce lucane a riportarmi indietro e a farmi smarrire in un sogno del passato.
Per me erano gli ultimi dinosauri che odoravano di profumo scadente e che non credevano in nessun sogno. Io ero pazzo di loro perché però credevano nei miracoli.
Poi le macerie.
Interi paesi devastati tra il Vulture e l’Irpinia. Rasi al suolo come in scenari di guerra. Privati della loro anima che in quegli anni viveva attraverso i propri centri storici brulicanti di vita quotidiana.
La confusione regnò sovrana nei primi giorni. Era il 1980 e anche se lo ricordiamo piuttosto moderno in realtà ci riflette oggi tutta la sua fredda arretratezza con un pugno in bocca di amara realtà.
I soccorsi arrivarono. Forse in ritardo ma tutti si adoperarono per recuperare tra le macerie briciole di familiarità andate perdute per sempre.
Quasi tremila morti. Distribuiti in piccoli paesi dove la percezione delle perdite spezzava in due la già precaria situazione emotiva. Era inevitabile riconoscere, tra le macerie, gente comune, che la si incontrava quotidianamente.
Un barbiere di Balvano, un macellaio di San Fele, un bambino di Pescopagano. Poteva esserci chiunque lí sotto e di qualunque posto. Di certo se non fosse stato per quei 90 secondi lo avremmo visto il giorno dopo nella stessa strada alla stessa ora. Invece il 23 novembre 1980 la linea temporale dell’abitudine fu bruscamente interrotta per poi venire incollata e saldata solo con il passare degli anni. Quasi curata spontaneamente come una ferita sul braccio.
Il dopo terremoto per certi versi dura ancora oggi. Per chi come me è cresciuto tra gli Ottanta e i Novanta la ricostruzione l’ha vista in tutta la sua lentezza. Ne ricorda i container grigi che da bambini ci parevano castigazioni divine, condanne di sfortuna.
Il dopo terremoto è un po’ come il dopo guerra, a cui quella gente era forse già stata abituata.
Era una Lucania diversa ma non troppo, avvolta in un passato che chiamarlo passato sembra quasi una battuta. Il 23 novembre 1980 è ieri in termini storici. Lo ricordiamo tutti.
Il 23 novembre 1980 lucano è una testata nel naso che sanguina sempre e la cui leggenda ha animato tanti racconti che tutti noi abbiamo almeno una volta sentito nella vita.
Nella nostra quotidianità lucana siamo abituati al susseguirsi quasi immutato dei tempi. Le nostre vite, i nostri giorni scorrono uguali in un contesto di normalità che rappresenta la nostra zona comfort ma basta che una cosa vada storta per fare cambiare tutto. Il passato, il presente, il futuro. I progetti, i sogni, il maxi televisore del cazzo. Tutto quello che abbiamo, che avremmo potuto avere. Quello che potremmo non avere mai.
90 secondi che cambiano linee temporali lunghe decenni. I volti sorridenti del giorno prima sepolti sotto massi il giorno dopo.
23 novembre 1980, la Lucania che perse qualcosa, qualcuno, tutto.


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