
Ricordo che una volta qualcuno mi disse che la parte più bella di un viaggio è quando ti fermi per cambiare treno. E quanto più è lunga l’attesa tanto più sarà stato bello il viaggio. Forse non me lo disse nessuno ma lo pensai io stesso questo concetto, in una delle mie bibliche attese di treni.
Quella volta ero a Potenza Centrale anche se si chiamava ancora Inferiore. Stavo tornando chissà da dove e chissà perché a quell’ora tarda. Che poi tanto tardi non era. Ma non posso garantirlo. So solo che era inverno e che la desolazione accentuava la percezione della notte inoltrata. E in un tempo in cui il telefonino si usava solo per telefonare.
Dovevo prendere il bus per Taranto delle 23 quindi potevano essere al massimo le 22. Ma sembravano le 3.
Tutto era ostile ai miei occhi. Ero appena sceso dal regionale Salerno-Potenza dopo un’interminabile buio che da Eboli in poi aveva prepotentemente dominato la scena. Quando il treno fermò al suo capolinea di Potenza Inferiore sapevo bene a cosa andavo incontro. Ci ero già stato altre volte ma poche a quell’ora e di inverno.
Uscito dalla zona binari, il quadro che mi si presentò davanti era abbastanza astratto. Un freddo che a tratti diventava piacevole quando il vento spostava le carte dall’asfalto del piazzale e mi riportava a ricordi di “kusturicana” memoria. Non so perché ma oggi ricordo quella notte come se fossi stato ad un luna park. Ma un luna park notturno e senza gente, proprio come un film di Kusturica. E questa cazzo di giostra, un po’ psichedelica, con i seggiolini, quelli che girano, al centro della piazza, che mi sposta da un ricordo ferroviario ad una sensazione di “Gioventú bruciata” (il film) o più precisamente da “I ragazzi della 56esima strada”. Ecco ho individuato lo sfondo.
Ciò che più è interessante di queste serate forzanti è proprio questo obbligo di stare solo con te stesso e quindi l’immaginazione da il via alle sue molteplici forme. Anche le più bizzarre. Anche quelle piú complicate da spiegare e apparentemente senza senso.
Ovviamente ero solo. Tutto era chiuso. Nessuna auto, nessuna forma di vita oltre il mio respiro, nessun rumore oltre il soffio costante del vento che a tratti alzava sti cumuli di volantini sparsi per la strada, immagine iconica di quella notte.
I palazzi alti difronte a me per guardarli dovevi alzare la testa. Sembrava quasi che oltre quelle luci ci fosse una città viva e che nel contesto di oscurità che mi inseguiva dal dopo Eboli direi anche che odorasse di metropoli. In realtà ero nel cuore della Basilicata. E dovevo aspettare questo bus che avrebbe sfidato e sfondato l’oscurità lato est fino a raggiungere la piana metapontina.
Mi sedetti dapprima sul muretto dove un tempo ci stava una pasticceria, sulla sinistra con la stazione alle mie spalle. Ma sto parlando di un altro tempo, forse anni ’90. Una volta ricordo pure di aver comprato un dolce. Avrò avuto forse 5 o 6 anni. Non vi era più traccia di quella pasticceria. L’unica interruzione di quella magnifica solitudine fredda fu quando fermò un bus cittadino che mi fece per un attimo pensare alla città o meglio al concetto di cittá. Per meglio comprendere che fossi in una cittá. Era vuoto. Oggi potrei azzardare anche a dire che non vi fosse neanche il conducente. Scese vuoto dalla discesa e se ne andò vuoto alla mia sinistra come un cavallo alato sfavillante rimpicciolendosi in un addio degno del miglior Kerouac.
Persi qualche minuto a leggere vari graffiti sul muro della stazione, per lo più insulti ma prove che una certa vita almeno di mattina ci sarebbe stata. Ma in quel momento non intersecava con quell’universo parallelo di via Nazario Sauro, inaccessibile e geloso della propria intimità.
Pensai molto quella sera. La doppia faccia di Potenza accentuava gli stati d’animo che mi pervadevano. Da un lato le luci della città che si sviluppava in verticale,dall’altro un nero assoluto verso le montagne da cui ero venuto e verso cui andavo. La mia destinazione non era lontanissima ma in quel momento aveva distanze astronomiche.
Pensai a qualcosa che successe nel 1997.
I pensieri mi passavano per la testa come ellittiche planetarie impazzite. Camminai avanti e dietro per un po’ tra i miei demoni in una stazione che altrove sarebbe stata un viavai di gente invece quella sera era ferma nel tempo e sollevata nello spazio.
Quando arrivò il bus per Taranto di colpo tornai nel 2003 allontanandomi dal capoluogo lucano e quasi ebbi una nostalgia del momento che mi aveva fatto compagnia in quell’ora e mezzo di attesa che oggi mi sembra un anno luce.
Il bus prese la Basentana lanciandosi in un nero mai visto altrove. Quel nero che solo noi lucani conosciamo e a cui spesso non facciamo caso. Incomprensibile come quella notte a Potenza Inferiore.
Viviamo vite come fossero stazioni dimenticate. Di giorno nel viavai della gente,di notte con sè stessi ma basta un solo cambio di treno per perdersi o per ritrovarsi. E ci ritroviamo a cercare il senso del tempo nelle piazze vuote delle ferrovie e lo scoviamo nascosto in un dettaglio di vento che alza carte trasformando stazioni in luna park vuoti.
Avevo con me quella sera una Sony Cyber shot, che oggi definiremmo shit, che mi piaceva più dei vecchi filmini di famiglia. Essa non lo sapeva ma proprio quel suo modo bislacco di fare foto sfocate mi riportava ad un’infanzia perduta. Scattai una foto. Foto che ha viaggiato nella dimenticanza per 22 anni fino a quando nel 2025, ieri, una pulizia generale me l’ha riportata alla memoria con tutta la sua storia.
Per fortuna ero a Potenza quella sera, per fortuna dovevo cambiare con sosta. Per fortuna non avevo nessun Frecciarossa dai finestrini sigillati a riportarmi a casa come un pacco Amazon. Per fortuna avevo la Cyber Shit.

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